Là dove, in mezzo alle praterie invase dallo straripare della grande città industriale,
giaceva addormentato un rudere secolare…
1918 – 1925
Il Borgo San Paolo
Distese di campi, prati e alcune cascine: era questo il paesaggio, che si presentava a chi, proveniente dalla Valle di Susa, giungeva nei pressi di Torino. La città era appena lì, si intravedeva, al di là di una cinta, un muro alto circa due metri (eretto nel 1853), che segnava il confine del centro abitato. Per entrare in città bisognava passare una barriera: era la dogana sorvegliata da guardie, che riscuotevano la tassa per tutte le merci. Lungo la cinta, che delimitava il confine del centro abitato, c’erano ben dodici barriere, all’altezza delle quali si svilupparono, a mano a mano, dodici borghi esterni, che diedero origine alla nuova e grande Torino.
Uno di questi è proprio Borgo San Paolo, che incominciò a formarsi a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie all’utilizzo innovativo dell’energia elettrica e al fatto che, al di fuori della cinta di confine della città, i commerci erano liberi dal dazio.
Progressivamente scomparve la distesa di prati, incominciarono a sorgere diverse officine, piccole fabbriche, botteghe e manifatture, soprattutto meccaniche. Per tutto ciò serviva manodopera e allora contadini proveniente in gran parte dal territorio piemontese iniziarono a diventare operai, a lavorare in fabbrica, ad abitare in zona vicina alla Barriera San Paolo, che si trovava all’altezza delle carceri di Corso Vittorio.
Il Borgo crebbe velocemente: il censimento del 1901 documenta oltre 4000 abitanti. Il vero boom, però, avvenne nel primo quindicennio del novecento con la costruzione dei grandi stabilimenti: Lancia, Ansaldo Spa , Pininfarina e Materferro.
Il rapidissimo sviluppo industriale, imprenditoriale, richiese anche quello urbanistico e la costruzione di edifici per l’accoglienza di operai immigrati. Nacque la nuova borgata. Non è difficile immaginare i problemi in un periodo così convulso. Infatti gli anni venti sono caratterizzati da non poche tensioni sociali, politiche e da un clima acceso.
1918 – 1925
Il “biennio rosso”
Il 1919 -1920 è definito il biennio rosso, segnato da lotte operaie, da scioperi violenti, da occupazioni armate di fabbriche, rancore contro la borghesia imprenditoriale e il ceto politico liberale.
Oltre a ciò, occorre ricordare la situazione drammatica causata dal primo conflitto mondiale. La descrive bene lo storico salesiano don Aldo Giraudo:
«L’economia di guerra imponeva gravissimi sacrifici per le misure rigorose, che pesavano soprattutto sui ceti più poveri ed esigevano, anche da donne e ragazzi, orari massacranti di lavoro nelle industrie, sotto un controllo disciplinare ferreo, con salari da fame. A tutto ciò si aggiungeva una grave penuria di viveri e di combustibili, la coscrizione militare di massa (dai giovanissimi ai richiamati di quaranta anni), l’enorme perdita di vite umane, che interessò la maggior parte delle famiglie italiane. Poi arrivò la grande influenza spagnola, la più grave pandemia della storia, che tra 1918 e 1920 uccise migliaia di persone in Torino (circa 600 mila in Italia e 50 milioni nel mondo)».
Non si possono ignorare i tragici moti di Torino, che scoppiarono nell’agosto 1917. Il 21 agosto donne e uomini proletari insorgono spontaneamente contro la mancanza di pane, ma immediatamente la protesta si trasformò in sciopero generale contro la guerra, che paralizzò la città. Il 24 è la giornata più sanguinosa. I dimostranti cercano di rompere l’assedio posto dalle truppe governative in Barriera di Milano e in Borgo San Paolo: il bilancio finale fu di circa trenta morti fra i rivoltosi, una decina fra le forze dell’ordine e quasi duecento feriti; vi furono migliaia di arrestati, di essi varie centinaia furono processati per direttissima e condannati a pene detentive, altri inviati al fronte.
Queste veloci note storiche ci presentano al vivo la fotografia di Borgo San Paolo, una delle zone più industrializzate e proletarie di Torino con disagi e tensioni, che, fin dalla nascita, non nascondevano punte estreme. Inoltre la mancanza di una rete di istituzioni pastorali e la presenza attiva di associazioni operaie e socialiste aveva favorito un diffuso anticlericalismo popolare.
1918 – 1925
Qui ci vuole un Oratorio
Qui si innesta l’idea salesiana di un oratorio nel quartiere. Gli oratori di don Bosco nascono quasi sempre ai margini delle città, in quartieri popolari come offerta globale di servizi a disposizione delle classi più disagiate, con particolare riguardo ai giovani i birichin come li chiamava don Bosco, che erano i più bisognosi di assistenza e di guida.
Quale ambiente migliore del Borgo Rosso? Era infatti una periferia estrema e agitata dai mali di una forte espansione (la popolazione durante la guerra raggiunse le ventimila presenze) e dai processi di evoluzione sociale, cui si opponevano: penuria di case, mancanza di occupazione (causata dalla fine della produzione bellica e dalla distruzione generalizzata di beni e di strutture produttive), incremento demografico e inadeguati o mancanti servizi sociali, che rendevano difficile anche il semplice convivere.
Gli inizi sono sempre stagione di sogni e di speranza, di fatica e di eroismo. Per questo concentreremo la nostra attenzione un po’ dettagliata sulla storia dei primi tempi. La penna diventerà, poi, più veloce, per raccontare i fatti salienti degli anni successivi.
È un cammino che sembra un sogno. Rivedremo quel giovane prete, don Bonvicino, che giocava a birille, a palla avvelenata nei prati di Borgo San Paolo e mangiava pane e cipolle a cavallo di un muricciolo. Rivedremo una tettoia, che si chiamava pomposamente cappella, un salone, che nei giorni di festa si faceva chiamare teatro. E pensiamo a don Bosco che voleva così: educava così in chiesa come in teatro, nello sport come nell’esame di coscienza, univa alla sana allegria di una gita l’esercizio della buona morte.
E poi, con il passare dei mesi, ecco le scuole, caposaldo dell’educazione salesiana: scuole per i bimbi, scuole per gli operai nelle ore quiete della notte.
Il segreto di tutta questa fecondità? Lo dobbiamo anticipare e rivelare con gioia: la povertà di vita dei Salesiani di Borgo San Paolo. Hanno sempre chiesto, per dare agli altri. A se stessi non hanno pensato mai. Sono rimasti lì per anni in quegli ambienti nei quali, quando tirava il vento si aveva l’impressione che i muri cadessero addosso. E la buona gente del popolo del lavoro, della vita dura, che lotta per il pane, aveva capito. Ha ammirato i suoi Salesiani e non li ha più abbandonati. Ecco il segreto della presenza di questi cento anni. I poveri si comprendono facilmente e si sono amati subito. E l’oratorio salesiano San Paolo è stato additato come uno degli oratori modello, con quei pionieri, che sfilano in una processione di nomi e di volti tutti grandi, generosi, tutti formati con il cuore di don Bosco: don Bonvicino, don Varino, don Fedel, don Castellotti, don Vitale, don … , don …
1918 – 1925
Don Rinaldi e don Ricaldone in via Frejus
È giunto il momento di ascoltare il racconto dalla viva voce del cronista appassionato.
Un giorno di maggio del 1918 don Rinaldi, allora Prefetto, ora (1925) Superiore Generale della Società Salesiana, con don Pietro Ricaldone, presentemente Vicario e Prefetto della medesima Società, si erano portati, ragionando, in Borgo San Paolo, e si trovavano in via Fréjus, nei pressi del Corso Racconigi, allora appena tracciato, dov’era la fabbrica italiana di Pianoforti F.I.P. Il discorso era intorno agli Oratori festivi e al bene ch’essi fanno, e a don Rinaldi venne detto: «Oh! Se ci fosse qui un oratorio!». In quel momento (..) ecco che una frotta di monellucci grida il «Qua! qua!» solito a lanciarsi contro i preti per dispregio. E don Rinaldi, senza scomporsi e sorridendo: «Sì, sì, qua; ci verremo presto qua; ci verremo!»
La Provvidenza volle che pochi giorni dopo questo fatto, si presentasse a don Rinaldi la Contessa Teresa Rebaudengo-Ceriana, grande benefattrice e zelatrice, a cui stava a cuore il bene delle classi operaie e povere, alla quale già don Rinaldi aveva affidato la cura e la direzione del Comitato per le Amiche delle Lavoratrici, presso il vicino oratorio femminile di Maria Ausiliatrice. La generosa donna «profondamente commossa al pensiero che nella Borgata San Paolo il male trionfasse così largamente, e che la gioventù dovesse crescere senza alcun avviamento cristiano, anzi fosse esposta alla corruzione dei costumi, abbandonata com’era durante le intere giornate a se stessa per le strade, a causa dell’assenza dei parenti occupati a orario continuo nelle fabbriche», si dichiarò disposta a cedere di suo novemila metri quadrati di terreno per la fondazione di un oratorio. Don Rinaldi, fatto esaminare il luogo da tecnici competenti, ne ebbe in risposta che in quel luogo era in vendita una vecchia cascina con terreno adiacente di ben 17.000 metri quadri. Era appunto quella casa presso la quale aveva esclamato quel giorno di maggio: «Se ci fosse qui un oratorio!».
La contessa, pochi giorni dopo, si dichiarò disposta a fornire quasi l’intera somma, promettendo di completarla in seguito. Così fu acquistata la cascina Saccarello, situata là, dove corso Racconigi è intercettato dalle vie Vigone e Luserna. «Era un corpo di caseggiato rustico con fienile e tettoia per carri e un tratto di abitazione civile con portico; una casetta rustica di fronte, tra il cortile e il giardino alberato, steso verso mezzodì e levante». La completa copertura della spesa fu possibile con l’offerta degli industriali torinesi in occasione della duplice ricorrenza, in quell’anno, del cinquantesimo della consacrazione della Basilica di Maria Ausiliatrice e del giubileo sacerdotale di don Paolo Albera, Rettor Maggiore e secondo successore di don Bosco.
1918 – 1925
La commozione di don Albera nella cappella improvvisata
«Il giorno 8 dicembre quella tettoia con pagliaio, ora divenuta cappella, decorata più di fede e di speranze che di pittura e di addobbi, accoglieva una moltitudine di fanciulli, più di 300, di gente del popolo, di amici, di benefattori della prima ora: la Contessa Ceriana, l’Ingegnere Lavarini, la Signorina Pianazza, il Signor Gastaldo, l’Impresario Ferreri e altri. Don Paolo Albera (secondo successore di don Bosco) col pianto negli occhi celebrò la Messa, distribuì la Comunione ai ragazzi, che si affollavano con incomoda premura all’altare- la cappella era talmente gremita di ragazzi e popolo che ben si poté dire: si era uno sopra l’altro! Fu in quel giorno memorando, che il buon padre, commosso, promise la grande chiesa. E cantavano. Cantavano le lodi di Dio e della Vergine che avevano imparate in quei giorni e che ripetevano per le strade in luogo delle canzoni sovversive.
Egli parlò con quella dolcezza che lo ha reso indimenticabile a chi lo conobbe; e si trattenne dopo con essi, facendoli rallegrare con qualche regaluccio. Il Signor Gastaldo gli rivolse a nome di tutti parole di ringraziamento, a cui Egli rispose da un balcone. La gente del popolo, i padri e le madri di famiglia, capirono che avvicinare il prete significa venir in contatto con la bontà. E furono conquistati».
Intanto gli stessi ragazzi, durante la successiva settimana, abbatterono il muricciolo, che divideva in due il cortile: ciò significò più spazio per il gioco e per l’accoglienza. Il primo salesiano aveva attratto a sé i primi sei ragazzi, giocando a birille, ora i presenti giunsero a ben trecento al mattino e quattrocento al pomeriggio.
Il lavoro compiuto in un mese rivelò i suoi frutti nella notte di Natale. li cronista ci informa con il solito entusiasmo: «Nella notte di Natale i giovani grandi tutti si accostarono devotamente alla Comunione e il mattino dopo i fanciulli fecero altrettanto, con ordine, con raccoglimento, con divozione. Molti uomini maturi piangevano. L’albero di Natale, preparato con materna sollecitudine dalle signorine Pianazza e Balbis dimostrò che si pensava anche dai tetti in giù per i figli del popolo: vi furono 400 premiati».
E a questo punto spicca un rilievo interessante: «Tra le lotterie, merenduole, colazioncelle, distribuzioni teatrali, passeggiate e simili, i fondi di un Oratorio Salesiano si esaurirebbero presto, se vi fossero. E invece, non essendoci, non si esauriscono mai, perché la generosità dei benefattori non fallisce, quando si lavora per il bene delle anime».